POGGIO PICENZE (AQUILA)
6 – 8 AGOSTO 2010
TRA PALCO E REALTA’
E’ primo pomeriggio. Il sole picchia ma all’orizzonte si profilano nubi di tempesta.
Sono all’inseguimento delle parole. Schizzano per una stradina, si strizzano per superare un reticolato che impedisce il passaggio. Tengo dietro.
La strada che percorro è acciottolata, l’erba si incunea e cresce tra il lastricato. In alcuni punti è alta. La natura si riprende ciò che era suo. Le inseguo e non riesco a raggiungerle.
Sono già stata in questo posto.
E’ un borgo antico, la parte vecchia del paese. Scorci suggestivi, piccole stradine. Ai balconi piante rinsecchite, fasto di un tempo che fu.
Le case sono in pietra, i portoni in legno. Ma sono case distrutte. Ampi squarci mostrano gli interni delle abitazioni: tavole ancora apparecchiate, ante di armadi aperte da cui si intravede la biancheria. Un vasino da notte. Una bicicletta è appoggiata al muro di una casa, ma la casa dietro non c’è più. E’ crollata. Ingoiata da se stessa.
Panni appesi oscillano come canne al vento. Non odo voci umane né animali. Vorrei parlare ma non posso. Anche Enzo, la mia guida, osserva il silenzio. Lui cammina con i ricordi.
Continua l’inseguimento.
Ci teniamo al centro della strada. E’ pericoloso stare qui ma non possiamo fermarci. Non adesso. Una forza ci induce a proseguire. Andiamo.
E andiamo in un sole che abbaglia. Lungo questa strada, in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di macerie, cercando lo squarcio che ci metta nel mezzo di una qualche verità.
In alcuni punti l’erba è così fitta da essersi mangiata il vicolo. Una trave è appesa sul niente.
Le parole svoltano l’angolo per fermarsi lì, su due carcasse di automobili ricoperte di macerie, da quella notte del 6 aprile 2009, ore 3.32.
Quando il tempo si è fermato.
Anche le parole sono ferme come sassi.
Dalla rocca del castello le case sventrate sono bocche oscenamente aperte in un urlo senza fine.
Vorrei sapere di dormire. Vorrei svegliarmi da questo che incubo non è.
Questo è il paese di Poggio Picenze, a un anno e mezzo dal terremoto.
Oggi è il 6 agosto 2010. E’ il Ritorno.
QUATTRO ORE PRIMA
La macchina percorre lentamente una strada alberata. Si immette sulla destra. Il fondo strada adesso è fangoso, si va piano. Ha piovuto, qui il tempo è variabile.
Sulla destra sfilano davanti ai nostri occhi casine di legno, sembrano baite di montagna. Sono carine, hanno i fiori alle finestre e vasi di gerani sul patio. Qualche casetta di bimbo, una giostrina.
Al centro di questo che sembra un piccolo paese delle Alpi c’è una chiesa, costituita da una costruzione un po’ più grande delle altre. E davanti una grossa campana.
Aspetto da un momento all’altro di veder spuntare una bianca mucca al pascolo. Una bianca mucca pulita, dagli occhi buoni e pazienti. Aspetto una bianca mucca e il suo campanaccio.
Aspetto. Aspetto come aspettano gli abitanti di Onna che ogni giorno, uscendo da queste loro belle casette, fanno i conti con la propria disperazione. Con il dolore che quotidianamente si rinnova alla vista del loro paese che non c’è più. Proprio di fronte al villaggio ricostruito c’è quel che rimane di Onna. Il niente.
All’ingresso del paese, un cartello per i visitatori e i turisti, come la scritta sulla porta dell’Inferno, fa perdere ogni speranza a noi che entriamo. Avvisa che dal mese di aprile da Onna non è stata portata via più nemmeno una pietra…e loro sono il paese privilegiato. Dove la macchina dei soccorsi si è attivata più in fretta.
Se loro sono i fortunati, figuriamoci gli altri paesi. Per non parlare de L’Aquila.
Non si vuole togliere merito alla provincia di Trento, che ha provveduto agli alloggi, né alla Germania che vuole ricostruire il paese. Gli abitanti di Onna hanno case confortevoli. Ma non sono le loro case, quelle che, pietra su pietra, hanno costruito nell’arco di una vita. Che erano dei nonni e dei nonni dei loro nonni. Queste casette sono sicuramente confortevoli ma non raccontano nulla dell’identità del paese, della storia, della tradizione. Sono case barbare.
A noi fa male stare qua, in questo contrasto tra un prima e un dopo, tra il niente che è oggi Onna e quello che chissà quando potrà essere. Il dolore allo stomaco si fa più fitto mentre ci addentriamo nella zona rossa, incuneati tra cumuli di macerie. La città è rasa al suolo. Onna non c’è più.
Qui, come a L’Aquila, come in tutti gli altri piccoli e grandi paesi, bisogna far ripartire il contatore della storia. Personale, collettiva.
Una storia alla quale anche noi da oggi apparteniamo.
LE ATTIVITÀ
Nel pomeriggio del venerdì ce ne stiamo in piazza, aspettiamo le 18.00 per dare avvio alle attività. La piazza di Poggio Picenze è intitolata a Salvatore Massonio, ma è detta “Piazza rosa”per il colore del lastricato. E’ una piazza molto grande, alle cui spalle ci sono dei giardini pubblici e una chiesa bellissima, transennata. Ci dicono che per un miracolo non è venuto giù il campanile.
Peppe, il nostro contatto, ci ha presentato gli altri membri dell’Associazione “Poggio Picenze tra memoria e futuro”, che collaborano con noi dell’Agita alla realizzazione del progetto Teatromoto – Il Ritorno. Loro hanno allestito 2 stand con esposizione di prodotti tipici locali e artigianato; sabato sera si esibirà un gruppo musicale, composto da giovani del posto.
Mirjam, Sara, Antonio e Gaetano hanno curato i laboratori di manipolazione e l’atelier di pittura; inaspettato è stato il coinvolgimento dei bambini, molto più numerosi di quanto ci aspettassimo. Ancora più inaspettato è stato il coinvolgimento delle nonne, delle mamme e di uno straordinario papà, che hanno lavorato fianco a fianco con i bambini. Divertendosi, arrivando puntuali agli appuntamenti… e anche in anticipo. I ragazzi poi sono stati eccezionali animatori di piazza; sulle musiche della baby dance hanno creato un clima di totale coinvolgimento e divertimento. Non solo dei bambini.
Patrizia ha curato il gruppo delle donne, inizialmente perplesse per il tipo di approccio assolutamente nuovo, ma poi sempre più coinvolte. E’ nato un percorso sulle mappe sentimentali che proseguirà, in altri momenti.
Letizia, giunta fin da Bolzano, ha lavorato con i bambini più grandi sull’ascolto, regalandoci poi, domenica mattina, un contributo finale assolutamente emozionante. Il cuore batte piano mentre i ragazzini mettono in scena “Gli ascoltatori di muri”; la partecipazione emotiva è grande.
Il venerdì sera la compagnia teatrale “Teatro mio” di Vico Equense mette in scena Cappuccetto rosso. E’ uno spettacolo per bambini, ma a divertirsi di più sono gli adulti.
In questa piazza, in questi tre giorni, è successo qualcosa. C’è stato un movimento. Di gente. Di pensieri. Voglio farlo diventare istituzione. Spero che sia nata una speranza.
Domenica mattina anche noi 5 di Vico Equense abbiamo messo in scena un piccolo spettacolo, dal titolo “Il paese delle forme meravigliose” Un apologo. Su come, salvaguardando la Memoria e guardando al Futuro, si possa collaborare insieme e risolvere i problemi.
Addirittura ricostruire un paese.
LE PERSONE
Ricordo i visi di tutte le persone che ho incontrato. Dei grandi e dei piccini. Quasi i nomi di tutti. Ricordo bene i loro occhi, le loro mani. La pelle ricorda il calore delle strette, gli abbracci. I sorrisi. I pranzi. Le cene fatte ad orari improponibili, a cui non avremmo rinunciato mai. Non solo per il cibo, ottimo e anche troppo abbondante, ma per il clima di convivialità che questa gente ci ha fatto gustare.
Si sono intavolate conversazioni mai banali, tra persone che si confrontano, si interrogano, chiedono consigli. Ho raccomandato loro di non perdere lo spirito di solidarietà che oggi li affratella, e di continuare a tener presente il bene comune. Di costruire percorsi fatti di piccoli passi.
Nonostante la stanchezza e il freddo, quasi ci dispiaceva di andare a dormire.
Sono stata molto bene in questi tre giorni a Poggio Picenze, ma non sono riuscita a trovare una poesia nella mia ricerca di un senso da dare al nostro intervento.
Chi non è stato qui ha solo una vaga idea di quello che è oggi il paese. Della frattura fra il prima e il dopo. Dell’apparenza di normalità.
Mentre in piazza si balla e ci si diverte, sotto le macerie muoiono anni di storie. Familiari. Personali. Belle e brutte.
Vorrei trovare una poesia in tutto questo.
Penso a Pompei, sepolta dalla lava e rinvenuta alla luce.
Ma c’è un abisso di più di 2000 anni tra rovine e macerie. Le prime raccontano di civiltà travolte, che la forza devastatrice della natura ha sopraffatto. Le seconde testimoniano dell’incuria dell’uomo, di forti responsabilità, di disastri che in qualche modo si potevano prevenire.
Queste macerie accompagnano la vita quotidiana, che faticosamente cerca di ricostruirsi un presente. Io non voglio essere custode dei sepolcri.
Qui l’armonia non vince di mille secoli il silenzio.
La storia va raccontata oggi. Bisogna ricominciare a parlare di ricostruzione.
Al momento dei saluti, Enzo mi dice che da oggi siamo amici fraterni. L’Associazione ci fa un grande onore donandoci le magliette che sono state realizzate all’indomani del terremoto con la scritta TerremoTosto.
Le indossiamo subito. Per noi è aver ricevuto un’investitura.
Questi tre giorni al paese di Poggio Picenze saranno la nostra memoria.
Ho cominciato a pensare a un futuro.
Valeria Esposito