Scappare dal centro: storia di Copeau è l’argomento di una conferenza che Fabrizio Cruciani tenne all’università di Malta nel 1992, e la si può leggere nel suo libro “Registi pedagoghi e Comunità teatrali nel Novecento” (E&A 2006), ancora reperibile in libreria. E’ una lettura appassionante e illuminante sul senso del teatro, che consiglio a tutti e non solo agli amanti del teatro e alle giovani leve.
Per il trentennale della scomparsa dello studioso, l’università di Roma Tre ha promosso due giornate di studio lo scorso novembre – “Fabrizio Cruciani e i tempi della storia”-a cura di Clelia Falletti e altri studiosi . In occasione della pubblicazione degli Atti che usciranno per i tipi E&A, John Schranz ha scritto il testo che pubblichiamo e che racconta l’origine della conferenza, oltre che essere una testimonianza d’amicizia.
John Schranz – Condivido con voi un ricordo preciso e… prezioso.
1992, Malta – Uno di quei pomeriggi che maggio sapeva ancora regalarci 30 anni fa – non ci puniva ancora Climate Change, allora. Passeggiavamo sul campus dell’Università, tra alberi e aiuole fiorite, Clelia, io e Fabrizio che aveva appena tenuto l’ultima lezione del Corso. Progettavamo l’intenso programma di novembre con la 1a edizione della Biennale di Teatro di Ricerca, che lanciavo in veste di coordinatore del programma Theatre Studies dell’università. Clelia e Fabrizio avevano visto una prova di un mio nuovo spettacolo Berlin! Berlin! All’indomani della chiusura del festival, sarei partito per Bologna, per restarvi un anno, frutto di una proposta che Fabrizio mi aveva fatto quando era venuto a Malta un anno prima per dare lezioni: “Ma perchè non vieni a Bologna per fare una tesi con me sull’Azione Fisica?” Me l’aveva sparata così, su due piedi, offrendomi per di più ospitalità nel suo appartamento a Bologna! Il fiat del nostro Rettore fu immediato. Tanti progetti avevamo discusso in quel passeggiare…
Ad un tratto mi fermai, mi girai verso di lui e: “Ti chiedo un favore. Sarò molto grato se tu potessi tenere una conferenza pubblica su Copeau; su quella sua sorprendente decisione di chiudere il Vieux Colombier, il suo trasferirsi in Borgogna con alcuni dei suoi più giovani attori.” Non era qualcosa che avevo pianificato; non ci avevo neanche pensato! Era come un fulmine a ciel sereno, senza alcun preavviso, una cosa che venne in testa così, in quel momento. L’avevo sparata senza neanche un attimo di riflessione, di pausa, sorprendendo anche me stesso. Seguì un silenzio.
Ricordo tutto come fosse ieri: tutti e tre fermi lì con lui che mi guardava.
Il silenzio. L’ immobilità… eccetto gli occhi di Clelia, quizzanti da quelli di Fabrizio ai miei e di nuovo ai suoi; io che lo guardavo quasi imbarazzato. Ricordo il punto esatto dove c’eravamo fermati: all’ombra, presso la porta sul retro della sala Sir Temi Zammit. Quel silenzio non durò più di due secondi, forse tre. ”Certo” – rispose Fabrizio sorridente – la chiameremo Copeau. Scappare dal Centro”. Fine discussione e riprendemmo il nostro passeggiare e dialogare. Fabrizio tenne quella conferenza la sera del giorno dopo.
*
Ogni volta che torno a rileggere quel suo testo mi trovo sempre a dire, quasi incredulo: “Ma è una struttura perfetta!” Parte con assoluta tranquillità: “Il presente è un tempo felice per il teatro” e passa con calma a dire che già allora, nel 1992, Grotowski, Brook e Barba insistevano (cito) “sulla necessità della memoria. Hanno detto che i loro interlocutori presenti sono uomini del teatro del passato. Per un confronto reale è necessario avere forte identità, cioè la possibilità di identificarsi in una tradizione.” E pone la domanda, cruciale: “Quale tradizione?” Certo – ci dice – c’è anche la tradizione del qualunquismo “del teatro come si è sempre fatto, come lo vuole la maggioranze dei suoi spettatori”. E ci ammonisce che quella è “una tradizione che, in realtà, uccide il passato”. Ed è a quel punto che chiama in causa Copeau. In una conferenza su Copeau lo menziona per la prima volta, aprendo un discorso su Molière, di cui Copeau aveva rilevato la tradizione della “ naissance”.
Ma non è delle rappresentazioni dei testi di Molière che Cruciani parla in questa conferenza, rappresentazioni che lui etichetta come “la tradizione imbalsamata alla Comédie Française”. Parla, invece, del testo scritto e non ne parla in quanto risultato, ma quale “cibo patrimoniale” che alimenta quella tradizione imbalsamata.
In effetti, ci ricorda Cruciani, è soltanto quando Copeau è all’apice del proprio riconoscimento mondiale che la Comédie Française si degna di riconoscerlo, invitandolo, magnanimamente, a dirigere la Comédie Française. Gli fa un invito pubblico a lui, a quel Copeau che, quando era in cerca di uno spazio per far nascere il suo progetto, aveva rifiutato un teatro offertogli perchè situato in centro, al cuore della scena artistica e teatrale di Parigi; scena che Copeau aveva per anni attaccato nei suoi discorsi sul far teatro, pubblicati su tanti importanti periodici di Parigi. Il perché di quel suo rifiuta diventa chiarissimo poco dopo, quando apre il Vieux Colombier, un ex piccolo cinematografo sul lato sinistro della Senna. Ce lo dice causticamente Cruciani, ciò che Copeau fa con quell’offerta della Comédie: “Ovviamente rifiuta”. No, non è degli spettacoli della Commédie Française che Cruciani ci parla. È di tutt’altro. Ci apre gli occhi sulla necessità che urge, che ci sollecita a scavare nelle miniere d’oro che sono lì, in attesa del nostro scavare: le miniere di testi scritti.
È lì che bisogna cercare, lavorare, e Cruciani ci dice il perchè: “Perchè se noi rifacciamo il risultato uccidiamo la creazione da cui il testo scritto è risultato”. Insiste, invece, sul dover prendere sulle nostre spalle l’onere di frugare in quell’enorme patrimonio per appropriarci “del percorso creativo che ha portato a quel risultato,”. Se arriviamo a comprendere come Molière è riuscito a scrivere L’Avaro, e se potessimo riprodurre, oggi – NON l’Avaro – ma il processo di Molière per arrivare a L’Avaro, allora noi potremmo dire di aver conquistato la tradizione.”
*
È per questo che, proprio all’inizio di quella conferenza, Molière viene chiamato in causa attraverso la citazione di Copeau. È questa ricchissima complessità che Cruciani ci presenta nell’ottavo paragrafo di una serie di dieci piccolissimi “paragrafi” con cui apre il testo (in verità, non sono paragrafi: ben tre hanno meno di dieci parole ciascuno!). Ciò che Cruciani fa è giocare con i ritmi! L’inizio è un gioco di ritmi; è un’apertura unica ciò che disegna per questo è un testo unico. In quel gioco di ritmi piomba su di noi una raffica d’informazione; quando quella raffica si placa ci troviamo presi in un’immensa ragnatela, ricca, complessa, fittissima, che ci tiene saldamente imprigionati nei suoi finissimi fili. La chiusura del testo è parimenti perfetta quanto l’apertura e scelgo di chiudere il mio piccolo intervento accennando a quel passaggio.
La forza dell’apertura è nella precisione matematica della sua costruzione, è un inizio che introduce, e nello stesso tempo incarna, la struttura scientifica dell’intero testo. Questo non è per dire che non sia poetico il testo! È poetico, eccome! Navigando però nel corpo del testo, ciò che io noto di più, e ciò che m’impressiona fortemente, è la struttura, l’equilibrio degli elementi e questo tiene ben in mano la poesia che corre nelle sue vene. Torno a come Cruciani chiude, alla delicatezza e forza che la sua poesia trova, presentandoci, un evento che ci lascia senza parole (sentiamo la tristezza di Fabrizio faccia a faccia con questo mondo che abbiamo costruito ovvero, che stiamo distruggendo ambientalmente, economicamente, umanisticamente….)
Sviluppato il discorso, infatti, Cruciani chiude il cerchio, tornando al punto di partenza: le ricerche di Copeau sui testi del passato. Sono il tramite attraverso cui potremmo riconquistare le tradizioni, ritrovare le origini, risvegliare in noi quei sentimenti e quelle facoltà che ci facevano veri esseri umani capaci di gestire la reciprocità, sensibili alla bellezza, all’armonia, ai sentimenti altrui, insomma a ciò che chiamiamo Teatro, che altro non è se non l’essenza di tutto questo. Perchè sono i rituali primordiali cha hanno costruito ciò che siamo e quei rituali sono alle radici del teatro. Ci presenta un’immagine indimenticable: una vasta gradinata, affollata di gente che ancora lo sente, il teatro; molti di loro sono in lacrime, piangono apertamente, emozionati. Sul proskenion c’è una persona: un vecchietto solo con un grosso testo in mano. Non ci dice, Cruciani, se quel vecchietto sia in piedi o se sia seduto. Non so perché, ma io me lo vedo in piedi, e forse si regge a stento in piedi per tutto il tempo, malgrado il dispendio enorme di energia che si è imposto. Siamo in Grecia, Atene. Legge, quel vecchietto, con una voce magistrale, una voce fatta per un capolavoro vecchio due millenni e passa, di un autore magistrale: Eschilo, I Persiani. E ci lascia, Cruciani, con un augurio che trasmette a noi dalla bocca di Copeau, quel vecchio lettore. È un augurio che, malgrado tutto, in qualche modo il teatro possa riuscire a farci recuperare quanto abbiamo perso, quanto stiamo perdendo perchè ci stiamo portando troppo lontani dalle origini.
*
Ho una certa immagine di Fabrizio in mente. Un’immagine che si è formata lungo gli anni… dal 1980, i vari incontri, i nostri scambi. È una di quelle immagini che restano impresse nella mente, diventano fisse, quasi una foto. In questa mia immagine, Fabrizio sorride sempre: un sorriso particolare tanto che, leggendo e rileggendo questo suo testo, sono arrivato a sentire che se le stelle si fossero allineate, poteva ben essere lui un Copeau, e che forse questo lo sentiva… Per questo sorrideva!
Lo descriverei così: è il sorriso di chi sta osservando un ragazzino, che non si accorge della sua presenza. L’osservatore sbircia da un angolo, il viso illuminato da un sorriso controllato, le labbra increspate; beh, tutto il viso è increspato: sopracciglia, occhi, zigomi, mento, tutto…. tipico di chi nasconde una risata, di chi osserva un ragazzino mentre sta compiendo qualche mascalzonata, che sarebbe meglio non fare. Lui, l’osservatore, pur partecipe con lo sguardo, di sicuro non la farebbe ma probabilmente (e lo sa, lo sente), troverebbe molto divertente pure lui, fare ciò che quel ragazzino sta per fare!
È questa l’immagine di Fabrizio che ho in mente.