Per “recita” si intende propriamente la rappresentazione di un’opera teatrale per una qualche “occasione” pubblica o privata, per una “ricorrenza” laica o religiosa. Era una consuetudine molto diffusa, prima dell’avvento della televisione, presso quasi tutte le classi sociali a segnare il tempo della festa, dell’eccezione. La “recita” è un modello profondo, un archetipo teatrale. Questo modo di fare teatro acquistò successivamente un significato negativo, diventando sinonimo di innaturalezza, affettazione, retorica, declamazione. Il verbo recitare significa “dire ad alta voce ciò che si è imparato a memoria” e, non a caso, nei programmi per la scuola elementare del 1955 si consiglia ai maestri di far “recitare facili ed artistiche poesie” ai bambini del primo ciclo e “brevi prose e poesie di autentico valore” a quelli del secondo. Tuttavia, è proprio questo “a memoria” quanto si finirà per stigmatizzare.

Non si mette tanto in causa questa prassi utilizzata per il rinforzo della memoria, quanto lo spaesamento infantile che si coglie nelle recite scolastiche, in cui “memoria” non significa “comprensione” di quanto si dice. Si contesta inoltre il protagonismo di alcuni soggetti su altri, scelti con criteri molto discutibili e ora sconfessati. Quale teatro d’occasione – Natale, Carnevale, Festa del papà o della mamma o d’altro – è ancora molto praticato nelle nostre scuole e destinato ad un pubblico di genitori. Ricchissima la produzione editoriale a fine Ottocento sino alla metà del Novecento a sostegno di una richiesta e di una tradizione consolidata. Questi testi “per recita” (favole, farse, commediole spesso a fondo moralistico e biografie più o meno edificanti) sono consultabili presso alcuni Centri di documentazione o Fondazioni specializzate. L’editoria ha dato di recente qualche segno di ripresa con la stampa di testi teatrali per la scuola.(LP)