Sono tutte forme espressive, pur con distinzioni di genere, legate al linguaggio corporeo e che fanno riferimento all’”imitazione”. La “mimica”, quale movimento del corpo e della mobilità espressiva facciale, è una delle manifestazioni più naturali della persona; ma quale “linguaggio dei gesti” è venuta elaborando un suo preciso codice. Proprio questo codice, già in epoca classica, tende a chiudersi in sé, a fissarsi in espressioni stereotipe e atteggiamenti “tipo”.
“Mimo” indica il racconto di una storia attraverso i gesti. L’uso attuale è più esteso: quale “arte in movimento” presuppone una creazione originale, poetica, basata su una gestualità più astratta (quasi vicina alla danza), che lo spettatore può interpretare come crede. La “pantomima” fa ricorso a vari elementi spettacolari con l’intento di divertire, pur restando fedele alla rappresentazione di una storia o di situazioni con personaggi-tipo. “Mimodramma” significa raccontare col corpo un testo o un montaggio di testi. E’, dunque, un’azione scenica su tema preordinato. La mimica è presente nella comunicazione quotidiana, spesso con funzione fática. Vogliamo credere sia stata inserita nei programmi scolastici per questa sua caratteristica e non a partire dal presupposto che i giovani, se incapaci di sostenere il “parlato” in scena, sappiano usare più facilmente il corpo. Nella scuola, la pratica di questa come delle altre forme espressive descritte, ci pone spesso di fronte a risultati modesti e stereotipati, anche senza l’aggravio della parola. E’ richiesta un’abilità esecutiva, posta sì volendo come “fine”, ma non data per scontata in partenza. La “naturalità” di un linguaggio, in questo come in altri casi, non esclude la conoscenza delle “regole” e non viene repressa, semmai dispiegata, con l’appropriarsi dei fondamenti del linguaggio stesso. (LP)