DI SUONI, FATE E LONTANANZE
In questi giorni la parola bellezza è per me nascosta nelle associazioni di pensiero, nei suoni, nelle immagini alle finestre e nella memoria che mi inonda come un’alluvione richiedendo di diventare parola scritta. Scrivendo ricompongo pezzetti di me sparsi negli anni e nelle relazioni, soprattutto quelle più intime, quelle familiari. Disegno brevi ritratti di persone e tesso ponti tra queste e i libri e le culture che attraverso. Ho aperto uno spazio virtuale, un blog, che si intitola “Come in uno specchio”, lo immagino come una porta tra me e un più ampio mondo incorporeo, di riflessi e giochi. Scelgo per voi questo breve racconto perché in questo momento lo percepisco come un piccolo teatro dell’immaginario.
In questi giorni di clausura mi accorgo di avere una particolare sensibilità per i suoni che filtrano all’interno della casa dalle finestre, dalle pareti, dalle fessure. I suoni che mi connettono alla vita di fuori e a quella degli altri.
Ci sono i suoni che riconosco come fastidiosi e inquietanti: le ambulanze in primis, la camionetta della spazzatura che rovescia le bottiglie di vetro alle sette del mattino generandomi uno spavento sotto pelle che nel sonno pronto alla sveglia mi pare l’allarme per un bombardamento imminente.
C’è la voce dei vicini che affiora in superficie come una bolla: vaga, incerta e allo stesso tempo rassicurante. C’è il verso degli uccelli, allegra moltitudine, per cui nulla è cambiato se non il loro orgoglioso rendersi manifesti facendosi spazio tra nascondigli di foglie e pali della luce.
Ci sono le voci delle persone per strada, delle persone alle finestre, squilli di cellulare, rimandi, rimbalzi, passa una macchina una volta ogni tanto, abbaia un cane, passa un carrello della spesa.
C’è la musica delle diciotto, la piazza di paese, il piano bar impossibile, il canto metallico, caparbio e disperato dei karaoke, al quale mi rivolgo con sentimento contrastante, passando dalla tenerezza al fastidio. Anche perché emana quell’odore d’estate che non so mai se amare o odiare. Un’estate qualunque che forse quest’anno non arriverà neppure.
E poi verso le venti se sono fortunata arriva l’eco della cantante lirica che deve abitare da qualche parte vicino a me. Nel silenzio della stanza mentre la luce si dissolve la sua voce mi pare un vento o l’ululato di un qualche spirito. Forse invece è una fata. Come quelle di cui mi parla mio nonno.
Mio nonno ha compiuto dieci giorni fa ottantanove anni. Non sono tante le storie che racconta, ma quelle poche le racconta tante volte e ogni volta ne cambia un pezzetto.
La madre di mio nonno, mamme bon’anime, come dice lui, aveva una sorella che si diceva fosse nata “vestita”. Nascere “vestita” significava probabilmente nascere con il sacco amniotico integro. C’è un’espressione di uso corrente che è nascere “con la camicia” che indica fortuna. Quindi in qualche maniera queste bimbe nate “vestite” dovevano essere considerate fortunate. Da fortunate a fate il passo è breve. La consonanza delle due parole non è casuale: entrambe provengono da una stessa radice etimologica che rimanda al fato, alla sorte, al destino.
Da quel che si diceva potevano percepire presenze che agli altri erano precluse. Si riunivano nei boschi in luoghi segreti e cantavano. Le loro voci si spargevano tutto intorno echeggiando e moltiplicandosi. Mio nonno specifica che le fate cantavano da terra, ma quella musica sembrava che volasse. Quelle nz’ vedè mai, solo le canzon’ … Ji passeve pure vicine però n’ le vedeve mai. Quelle non si vedevano mai, solo le canzoni… ci potevi anche passare vicino, ma non le vedevi mai.
Sua madre sentiva alla finestra melodie bellissime e ammalianti, ma non sapeva da dove provenissero e chi le generasse, mentre sua sorella poteva vedere tutto e quando veniva chiamata dalle altre fate doveva a ogni costo raggiungerle.
Verosimilmente queste donne, cui si attribuiva la capacità di creare un ponte tra i mondi, dovevano essere considerate strane, diverse e anormali. Mio nonno racconta che suo padre strillava contro la cognata, la fata, e la rimproverava dicendole che non poteva starsene sempre in giro a “fateggiare”, ma era necessario che si desse da fare e andasse a lavorare. A lui le fate non piacevano. Un giorno però mentre si trovava a passare per un ponticello si sentì tirare verso il basso. Qualcosa, come una forza, lo spingeva in acqua. Non senza sforzo riuscì infine a resistere e a proseguire il suo cammino.
Tornato a casa raccontò l’avvenimento a sua moglie, mentre la sorella fata ascoltava. Sono state loro, disse lei scoppiando a ridere all’improvviso. E anche la moglie, sua sorella, rideva soddisfatta. Ti fanno i dispetti perché tu non mi lasci stare. Diceva.
Quando mio nonno racconta questa storia si vede che ha un po’ di timore. Ma tu, nonno, ci credi alle fate? Chiedo. Certo, dice lui. Con tutta l’umiltà di chi sa di non sapere proprio bene come stanno le cose. E anche io devo dire che alle fate in un certo senso ci ho sempre creduto.
Oggi quando mi perdo nei suoni a cui non so dare corpo penso alle loro voci e al loro essere numi tutelari di un qualche destino. Oggi mi pare di non riuscire più a vederci chiaro e di essere più che mai connessa solo al mio sentire. Mi sembra che là fuori tutto si sia trasformato in qualcosa d’altro e mi percepisco come se, cieca, mi sforzassi di ricostruire la realtà attorno a me. Mi viene da pensare con un po’ di entusiasmo e un po’ di timore: magari il mondo se lo fossero ripreso le fate…
Riascolto le parole di Montale, che per me è un altro genere di nonno.
Ex voto (Satura II, 1971)
Accade
che le affinità d’anima non giungano
ai gesti e alle parole ma rimangano
effuse come un magnetismo.
É raro ma accade.
Può darsi
che sia vera soltanto la lontananza,
vero l’oblio, vera la foglia secca
più del fresco germoglio. Tanto e altro
può darsi o dirsi.
Comprendo
la tua caparbia volontà di essere sempre assente
perché solo così si manifesta la tua magia. Innumeri le astuzie
che intendo.
Insisto
nel ricercarti nel fuscello e mai
nell’albero spiegato, mai nel pieno, sempre
nel vuoto: in quello che anche al trapano
resiste.
Era o non era
la volontà dei numi che presidiano
il tuo lontano focolare, strani
multiformi multanimi animali domestici;
fors’era così come mi pareva
o non era.
Ignoro
se la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l’innocenza é una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me,
di te tutto conosco, tutto
ignoro.
Mi affaccio alla finestra e vedo in lontananza l’incrocio che mi era quotidiano, a oltre duecento metri da casa, e desidero e temo di tornarci, come se non lo riconoscessi più, come se in fondo non volessi mai tornarci, come se non fosse più un incrocio familiare, ma un bosco fitto, pieno di voci di fate che non potrai mai vedere.
(Enzo oltre ad essere il fotografo è anche la persona che, insieme a Paola, mi scorta da anni con pazienza per i boschi abruzzesi)